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L’esogestazione e l’importanza del contatto corporeo nella relazione madre-figlio

Una amica carissima, Maria Teresa Lanza, continua a darmi/darci dei contributi preziosi, questa volta parlerà di contatto corporeo con il bimbo appena nato.

Ti consiglio di leggere fino in fondo.

Ashley Montagu (1905-1999), noto antropologo, scienziato e umanista inglese, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1927, divulgò all’inizio degli anni settanta, attraverso il suo libro “Touching: the Human Significance of the Skin” (pubblicato in Italia col titolo “Il linguaggio della pelle”), il risultato di approfonditi studi e ricerche circa alcuni importanti aspetti che caratterizzano la nascita degli esseri umani. La nascita del piccolo dell’uomo è determinata dalle dimensioni che il suo corpo e soprattutto la sua testa hanno raggiunto.

Per la sopravvivenza del feto e della madre è perciò necessario che l’endogestazione (gestazione dentro l’utero) termini non appena raggiunto il limite delle dimensioni del capo compatibili con quelle del canale di parto, cioè molto prima della completa maturazione del feto stesso: quando viene alla luce, il bambino non è effettivamente pronto ad affrontare la vita.

Di conseguenza, una parte significativa di ciò che poteva considerarsi lo sviluppo endouterino si trova invece ad avvenire nei mesi seguenti la nascita (da cui il termine “esogestazione”, cioè gestazione fuori dall’utero).

Nelle prime settimane il neonato è sostanzialmente disadattato alla sopravvivenza sia sotto il profilo motorio che cognitivo e sociale.

Il suo prolungato periodo di immaturità comportamentale rivela non soltanto quanto sia sottosviluppato e dipendente al momento della nascita ma anche come il suo organismo sia profondamente immaturo dal punto di vista biochimico e fisiologico. Nel bambino, per esempio, a differenza delle altre specie mammifere, alcuni enzimi epatici e duodenali (amilasi) non compaiono prima che siano trascorsi settimane o mesi e per questo motivo l’Organizzazione Mondiale della Sanità stessa raccomanda l’introduzione di alimenti diversi dal latte materno non prima dell’effettivo compimento del 6° mese di vita.

Il Prof. Bostock ritiene che il termine dell’esogestazione venga a coincidere con lo stadio in cui il bambino comincia ad andare a carponi speditamente.

Il feto sembra, infatti, completare la sua crescita ed il suo sviluppo in tale periodo.

E’ interessante notare che l’esogestazione, se si considera terminata quando il bambino comincia a gattonare, dura, approssimativamente, quanto l’endogestazione. Il bambino resta immaturo molto più a lungo del cucciolo del canguro e dell’opossum e tuttavia, mentre il piccolo marsupiale gode della protezione della borsa materna, al piccolo d’uomo non è dato questo vantaggio.

Egli fa parte, però, di un’unità simbiotica: durante la gravidanza la madre, che gli ha dato rifugio e sostentamento nel grembo, si è accuratamente preparata a continuare la sua opera dopo la nascita. Il piccolo, a causa della forzata e prematura interruzione della vita fetale vive, inoltre, un’esperienza di abbandono e di lacerazione, che può lasciare in lui segni profondi: non la si deve sottovalutare solo perché egli non si sa esprimere in modi da noi riconoscibili.

Il dolore del bambino, non potendo essere da lui raccontato, cioè comunicato attraverso le parole, viene spesso dall’adulto semplicisticamente negato.

Tuttavia la madre è in grado di sintonizzarsi con questa sofferenza, di riscoprirla nel proprio intimo, costruendo su di essa un rapporto empatico ed affettivo assai intenso con il proprio piccolo e può, quindi, esercitare nei suoi confronti un’azione di riparazione affettiva, ripristinando e restaurando con altri mezzi il legame che la nascita ha così traumaticamente turbato.

Ciò di cui ha innanzitutto bisogno il neonato è il contatto corporeo con la mamma: l’essere tenuto in braccio, l’essere portato addosso (ad es. con una fascia porta-bebè o con un marsupio), la condivisione del sonno (specie notturno) nel lettone, l’essere allattato al seno, l’essere abbracciato e coccolato.

Nel caso di allattamento artificiale, si ricordi che l’uso del biberon non deve necessariamente precludere al lattante il piacere cinestetico di sentire la pelle della madre contro la sua. Ella, infatti, una volta scopertasi il seno, può portare il bambino a stretto contatto col suo corpo e lì mantenervelo mentre lo allatta col biberon.

Il desiderio del piccolo di rannicchiarsi contro il corpo della madre corrisponde al bisogno di un involucro, di una protezione, atti a riprodurre le condizioni dell’ambiente intrauterino.

Inoltre, dato che il neonato in certi casi vive con turbamento il mancato controllo dei suoi movimenti involontari, egli necessita all’inizio di essere fisicamente “contenuto”.

Il tatto, inteso come “il senso del corpo intero” e non solo come la facoltà localizzata nei polpastrelli delle dita, è il primo sistema sensorio attraverso cui il feto e il neonato iniziano a “conoscere il mondo”, prima ancora che con la vista e con l’udito.

La pelle è ricca di terminazioni nervose e per il bimbo l’esser toccato, l’entrare in contatto con il corpo della madre (sentirne il calore, l’odore, il battito del cuore, il respiro) influisce sullo sviluppo cardiorespiratorio, sull’ossigenazione del sangue, sulla regolazione termica e sulla conseguente intensificazione dello sviluppo generale.

Queste sono le fondamentali rassicuranti esperienze che il bambino deve provare anche per rafforzare in sé il sentimento di autostima: la percezione dell’identità da parte del piccolo nasce proprio dall’esperienza di contatto corporeo, che gli fa percepire meglio se stesso e l’altro.

Anche la neomamma trarrà notevoli benefìci dalla comunicazione “pelle a pelle” con il bambino.

Il recupero di questo linguaggio, precedente le parole e le immagini, offre immediati effetti positivi, emozionali e viscerali, che le permetteranno subito di intraprendere col figlio uno scambio bidirezionale, autentico, coinvolgente, e quindi arricchente e maturante.

Questa relazione profonda con il bambino, inoltre, attiverà automaticamente in lei tutte quelle competenze materne che, seppur insite in ogni donna, potrebbero rimanere inespresse a causa di inveterate abitudini socio-culturali e/o personali (che, spesso, si mettono in atto in modo inconsapevole e, quindi, senza mai metterle in dubbio).

È d’obbligo, a questo punto, senza voler giudicare o colpevolizzare alcuno, sottolineare che, purtroppo, la paura della madre (o di chi le vive vicino, sia esso compagno o parente stretto) di viziare il bambino porta spesso a deprivare il piccolo proprio dell’essenziale, primario e prezioso “nutrimento” di cui egli così tanto abbisogna.

Perché si dovrebbe interferire nella soddisfazione di questa necessità, indispensabile allo sviluppo del bambino, nonché all’instaurarsi di una ”viva” e “umanizzante” relazione madre-figlio?

Non c’è davvero alcun motivo perché la mamma, nel rapportarsi al proprio piccolo, debba precludere o “dosare” il contatto corporeo: in una relazione umana, esso è un atto di comunicazione pieno di significato, che crea i presupposti per un adeguato sviluppo psico-affettivo e cognitivo del bambino, determinante per la sua evoluzione nell’intero corso della vita.

Il metodo canguro: Riscoprire il modo naturale di accudire il proprio bambino

Il metodo canguro è stato definito in differenti modi, ma i due principali elementi sono il contatto pelle a pelle e l’allattamento: è stato raccomandato come un possibile mezzo per curare i prematuri.

Il metodo canguro descrive il modo corretto di occuparsi di tutti i neonati: se un bambino è al suo posto, cioè sul petto della sua mamma, si comporterà nel modo giusto e saprà esattamente che cosa fare.

Le moderne tecniche di assistenza neonatale, sia dei bambini prematuri che dei nati a termine, sono molto lontane da tutto questo.

Molti ospedali separano la mamma dal bambino: non c’è nulla di peggio.

Quando mamma e bambino sono sempre insieme stabiliscono anche un adeguato schema di sonno.

Se dormono contemporaneamente la mamma e il bambino saranno meno stanchi e stressati.

La marsupioterapia (o canguroterapia) è un metodo assistenziale, sviluppato inizialmente e in modo quasi casuale da un gruppo di pediatri di Bogotà, in Colombia, nel 1978, per far fronte al sovraffollamento dei reparti neonatali, “sfruttando” in maniera efficace i genitori, 24 ore su 24, al posto delle incubatrici.

Il paradigma del metodo canguro è fondato sul fatto che l’essere prematuri non è una malattia ma che la separazione dall’habitat naturale (la madre) rende l’essere prematuri una malattia.

Nel metodo canguro, il rispetto dell’habitat originale (cioè il contatto pelle a pelle fra mamma e bambino) e del comportamento pre-programmato per questo habitat (l’allattamento al seno) costituiscono i punti di partenza, la base delle cure, a cui saranno aggiunti il sostegno e la tecnologia disponibili.

 

Articolo redatto da Maria Teresa Lanza
Conduttrice dei Gruppi d’Incontro
MATRES MATUTAE
“Madri della Luce del Primo Mattino”
Albino (Bg)

 

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Un abbracco

Paolo Cericola
Maestro di Respiro

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